Le tecniche psichiatriche come strumento di liberazione o di oppressione

da Franco Basaglia CONFERENZE BRASILIANE. Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.
A cura di Franca Ongaro Basaglia e Maria Grazia Giannichedda

San Paolo, Instituto Sedes Sapientiae 18 giugno 1979.

“Ogni volta che parlo in pubblico sui problemi della psichiatria ho l’impressione di sentirmi sempre più timido e confuso. Questa sera sono stato identificato con Moreno, e non me ne lamento, perché quella di Moreno è stata una figura importante nella storia della cultura europea fra le due guerre e anche dopo la Seconda guerra mondiale. Ringrazio gli amici che hanno proposto questa identificazione, che io credo sincera, non un messaggio dai meandri dell’inconscio… Bene, questa sera devo parlare della psichiatria come tecnica, come strumento di liberazione o di oppressione, tema che mi è stato dato dagli amici dell’organizzazione. E’ difficile stabilire questa differenza, questa divisione bizantina fra libertà e oppressione, ed è difficile dire se la psichiatria sia di per sé strumento di liberazione o di oppressione. Tendenzialmente la psichiatria è sempre oppressiva, è un modo di porsi del controllo sociale, ma è da questo punto di vista che la questione diventa più complessa.Se partiamo dall’origine della psichiatria, nata come elemento di liberazione dell’uomo, dobbiamo ricordare Pinel, che liberò i folli dalle prigioni ma purtroppo, dopo averli liberati, li rinchiuse in un’altra prigione che si chiama manicomio. Cominciano così il calvario del folle e la grande fortuna dello psichiatra. Dopo Pinel, se esaminiamo la storia della psichiatria, vediamo emergere nomi di grandi psichiatri; ma del malato di mente esistono solo denominazioni, etichette: isteria, schizofrenia, mania, astenia eccetera. La storia della psichiatria è storia degli psichiatri, non storia dei malati. Fin dal Settecento questo tipo di relazione ha legato indissolubilmente il malato al suo medico, creando una condizione di dipendenza dalla quale il malato non è mai riuscito a liberarsi. Direi che la psichiatria non è mai stata altro che una brutta copia della medicina, una copia nella quale il malato appare sempre totalmente dipendente dal medico che lo cura: importante è che il malato non sia mai in una posizione critica nei confronti del medico. Quando il popolo, nel secolo scorso, cominciò a ribellarsi all’autorità dello Stato, si capì che voleva una parte nella gestione del potere, e soprattutto che il popolo non era un animale che poteva essere dominato facilmente. Così emerse nettamente, nel secolo scorso, l’esistenza di due classi: la classe dei lavoratori, che non vuole più essere dominata e vuol essere partecipe del potere, e la classe dominante, che vuole continuare a dominare senza cedere spazio a chi vuole spartire il suo potere. La storia è chiara: sono più di cento anni di lotte, di sangue, di guerre civili. La classe lavoratrice ha conquistato uno spazio di rilievo nei nostri paesi. Penso che sia fondamentale che il medico e lo psichiatra che curano i malati sappiano queste cose. Il medico che assiste una comunità deve infatti sapere che in questa sono presenti come minimo due classi, una che vuole dominare e l’altra che non vuole lasciarsi dominare. Quando lo psichiatra entra in manicomio incontra una società ben definita: da un lato i “folli poveri”, dall’altro i ricchi, la classe dominante che dispone dei mezzi per il trattamento dei poveri folli. Sotto questa angolatura, come possiamo pensare che la psichiatria possa essere liberatrice? Lo psichiatra sarà sempre in una posizione di privilegio, di dominio nei confronti del malato. Anche questo fa parte di ciò che la storia della psichiatria fa capire. Essa è storia dei potenti, dei medici, e mai dei malati. Da questo punto di vista, la psichiatria è fin dalla nascita una tecnica altamente repressiva, che lo Stato ha sempre usato per opprimere i malati poveri, cioè la classe lavoratrice che non produce. Tuttavia, qualcosa di nuovo è accaduto in questa seconda metà del secolo, qualcosa di speciale che ha dato alla scienza in generale, e in particolare ad alcuni aspetti della medicina e della psichiatria, elementi di liberazione e non solo di oppressione. Dopo la Seconda guerra mondiale il popolo e alcuni tecnici hanno cominciato a mettere in discussione le istituzioni dello Stato. Negli anni Sessanta abbiamo visto, come in una grande fiammata, la gioventù del mondo intero ribellarsi. In questa rivolta noi tecnici della repressione psichiatrica eravamo presenti e abbiamo dato il nostro appoggio a questa ribellione. Poi, mentre la rivolta del Sessantotto si perdeva in varie direzioni e veniva recuperata in una sorta di nuova oppressione e restaurazione, c’è stata una serie di situazioni abbastanza interessanti che hanno legato le lotte nelle istituzioni alle lotte dei lavoratori. I grandi movimenti di questi ultimi vent’anni sono stati la rivolta degli studenti, i grandi scioperi operai che hanno preso in mano alcune delle lotte degli studenti, la lotta nelle istituzioni psichiatriche e, infine, una delle più importanti, la lotta dei movimenti comunisti. Questo momento ha fatto sperare che il mondo potesse essere diverso. Ci sono state illusioni, ma anche una serie di certezze. Abbiamo visto, per esempio, che quando il movimento operaio prende nelle sue mani lotte rivendicative, di liberazione, antistituzionali, questa illusione diventa realtà. In Italia per esempio, dopo il 1968 ci sono stati grandi scioperi, durante i quali gli operai rivendicarono il diritto alla salute, cioè portarono a livello delle istituzioni pubbliche le loro lotte. Parallelamente, alcuni tecnici dimostrarono che il manicomio era un luogo di oppressione e di dolore, non di cura. Infine, in quegli anni e nei seguenti, le donne dimostrarono che l’oppressione del maschio e della famiglia impediva loro di avere una propria soggettività. In altre parole, tutti questi movimenti e queste lotte hanno evidenziato che, oltre alla lotta del movimento operaio che rivendicava il cambiamento della condizione di vita e la partecipazione alla gestione del potere, c’era anche un’altra lotta fondamentale: la volontà di affermarsi non tanto come oggettività ma come soggettività. Questa è una fase molto importante, poiché è la fase che stiamo vivendo, ed è una sfida a ciò che siamo, al rapporto tra la nostra vita privata e la nostra vita come uomini pubblici e politici. Quando il malato chiede al medico spiegazioni sulla sua cura, e il medico non sa o non vuole rispondere, o quando il medico pretende che il malato se ne stia a letto, è evidente il carattere oppressivo della medicina. Quando invece il medico accetta la contestazione, quando accetta di essere il polo di una dialettica, allora la medicina e la psichiatria diventano strumenti di liberazione. Anche per quanto riguarda la questione del movimento femminista, vediamo che nella relazione uomo-donna, quando l’uomo accetta la donna come elemento non passivo ma attivo, quando la accetta nella sua soggettività, allora i due poli del rapporto indicano l’inizio di un rapporto dialettico, l’inizio di un mondo nuovo. E’ su questa questione che dobbiamo scegliere la nostra strada: se preferiamo rimanere nell’oscurità, o vogliamo essere presenti al nostro tempo e cambiare in pratica la nostra vita. Vi ringrazio e penso che possiamo iniziare il dibattito.

DOMANDA: In relazione con quanto Basaglia ha detto, come si spiega l’assenza di donne al tavolo del dibattito?

RISPOSTA: In questo tavolo c’è una donna ma in un ruolo di inferiorità, perché tradurre non è un ruolo attivo ma passivo. Ma questo non è colpa mia… Io ho tentato di mettere in discussione me e tutti i presenti. Adesso, vorrei invitare la signora o signorina a intervenire. Lei vuole essere presente con la sua soggettività e la sua protesta. Bene, quando ci troveremo uno di fronte all’altra saremo in condizione di cominciare un dialogo. Se lei volesse sedersi qui con noi e intervenire…

D: Nella psicoterapia non esiste forse oppressione del terapeuta verso il paziente?

R: Penso che, indipendentemente dal problema della relazione medico-paziente, dalla rivolta dell’oppresso contro chi lo domina nasca un legame che prima non esisteva. Io non sono uno psicoterapeuta ma penso che la psicoterapia, per essere funzionale, necessiti continuamente di uno stato di tensione del terapeuta come del paziente. Non voglio entrare nel problema della psicoterapia, perché dovrei essere molto critico, e questo non mi sembra il momento. Penso del resto che, se non c’è tensione, nella relazione non c’è vita. Per esempio, abbiamo parlato di Moreno: penso che egli sia stato un grande manipolatore, ma è stato anche una figura importante perché ha stimolato molte contraddizioni, in parte soffocate probabilmente proprio da quella codificazione tecnica che io chiamo manipolatoria. Moreno, secondo me, era come un fuoco d’artificio che continuava a produrre contraddizioni. Di Moreno sono state importanti non tanto le tecniche che ha prodotto quanto le contraddizioni che ha aperto. E’ più complicato parlare di Freud, ma possiamo dire che, frequentemente, le persone che hanno un significato nella storia dell’uomo sono quelle che determinano le tensioni nelle contraddizioni, le aperture. Io penso che l’umanità sia sempre stata divisa in due parti: gli inventori e i narratori. I narratori non fanno altro che studiare le tecniche di chi ha inventato le leggi delle contraddizioni. Probabilmente sono entrambi necessari, però l’importante è che entrino realmente in contraddizione. Questa almeno è la speranza…

D: Ci parli un po’ di più del suo ospedale a Trieste e della sua esperienza a Gorizia.

R: Vi ringrazio molto di avermi fatto questa domanda. Io parlo sempre di questo, ma dopo, perché sono abbastanza schivo quando si tratta di ciò che mi riguarda direttamente. Direi che Gorizia, Trieste e tutta la diaspora che si è verificata in Italia sono legate alla storia politica italiana dopo la Seconda guerra mondiale. So che ho già accennato a questo, e scusate se mi ripeto, ma non si può inventare una storia diversa… Dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia era ancora un paese contadino a livello economico e culturale. Negli anni Cinquanta cominciò un processo di cambiamento determinato dall’avvio della società industriale e, conseguentemente, da una classe operaia sempre più forte. Cominciarono così le lotte sindacali per un cambiamento nell’organizzazione dello Stato. In quegli anni iniziammo il lavoro a Gorizia, una piccola città alla frontiera con la Iugoslavia. A Gorizia c’era un ospedale di cinquecento letti diretto in maniera del tutto tradizionale, dove erano usuali elettroshock e insulina, un ospedale dominato in primo luogo dalla miseria, la stessa che incontriamo in tutti i manicomi. Nel momento in cui vi entrammo dicemmo no, un no alla psichiatria, ma soprattutto un no alla miseria. Vedemmo che, dal momento in cui davamo risposte alla povertà dell’internato, questi cambiava posizione totalmente, diventava non più un folle ma un uomo con il quale potevamo entrare in relazione. Avevamo già capito che un individuo malato ha, come prima necessità, non solo la cura della malattia ma molte altre cose: ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, ha bisogno di risposte reali per il suo essere, ha bisogno di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno. Questa è stata la nostra scoperta. Il malato non è solamente un malato ma un uomo con tutte le sue necessità. Per esempio, io ricordo che dopo che aprimmo i padiglioni di Gorizia, nel 1963-1964, tutti ci aspettavamo di vedere cose terribili. Cosa mai poteva accadere? Non accadde nulla. Fu perfino triste, perché eravamo pronti, pronti a chissà cosa… Avevamo visto che, in riunioni come questa che stiamo facendo ora, le persone si comportavano correttamente, chiedevano cose molto giuste, volevano cibo migliore, possibilità di relazioni uomodonna, tempo libero, libertà di uscire eccetera, cose che uno psichiatra nemmeno immagina che il malato possa chiedere. Sarebbe lo stesso che, in una società fondata sul puritanesimo, una figlia chiedesse al padre di uscire di notte. Sarebbe una cosa terribile per il padre: come potrà sapere quando sua figlia farà ritorno a casa? Succede lo stesso con il malato mentale, perché lo psichiatra ha sempre confuso l’internamento del malato con la propria libertà. Quando il malato è internato, il medico è in libertà; quando l’internato è in libertà, l’internato è il medico. Il medico non accetta questa situazione di parità per cui o il malato viene rinchiuso o è il medico a esserlo… Così, quando noi cominciammo a organizzare qualcosa di tendenzialmente egualitario, vedemmo, per esempio, che un uomo incontrava una donna e non succedeva alcuna violenza. Si innamoravano. Naturalmente, dopo potevano avere una relazione sessuale, ma questo succede nelle migliori famiglie, e perché non nel manicomio liberato? Qui accadevano molte cose e questo era uno scandalo. Cominciammo a divulgare queste cose per mostrare che era possibile gestire il manicomio in modo diverso. Tutto questo ci portò anche a una riflessione politica: gli internati appartenevano alle classi oppresse e l’ospedale era un mezzo di controllo sociale. Organizzammo a Gorizia una comunità con l’obiettivo di curare e di mostrare come era possibile una vita diversa. La cosa sorprendente fu che molti giovani, molta gente veniva da noi e percepiva che la vita dentro quella comunità era migliore di quella fuori. Il punto è che dentro quella comunità l’egoismo che domina la nostra vita era affrontato diversamente: la mia sofferenza era la sofferenza dell’altro. Cominciammo con questo tipo di logica. Questo succedeva a Gorizia. Successivamente, la maggioranza delle persone che avevano lavorato a Gorizia andarono a dirigere altre istituzioni psichiatriche, e così cominciarono a formarsi quattro, cinque, sei esperienze differenti. Ma tutti noi che avevamo fatto questo lavoro sapevamo che il manicomio, anche diretto in modo alternativo, era sempre una forma di controllo sociale perché la gestione non poteva che restare nelle mani del medico, e la mano del medico è la mano del potere. Così, quando nel 1971 abbiamo iniziato a lavorare a Trieste, abbiamo proseguito l’esperienza di Gorizia avendo in mente fin dall’inizio la prospettiva di eliminare il manicomio e di sostituirlo con un’organizzazione molto più agile, per poter affrontare la malattia dove essa si produceva, dove nasceva. Cominciammo da un manicomio di 1200 persone e oggi, dopo otto anni di lavoro, non c’è quasi più nessuno in questa struttura. Non pensate che li abbiamo uccisi… Il fatto è che queste persone hanno tentato la reintegrazione sociale insieme con noi, con la società, con la comunità. Potremmo dire che siamo persone che trasformano in oro quello che toccano, ma nella realtà il nostro lavoro è stato molto semplice. Come dicevo prima, la nostra scoperta nell’esperienza di Gorizia era stata che la classe lavoratrice era destinata al manicomio in caso di malattia. Pensammo allora che questa classe dovesse avere responsabilità, potere nella gestione del problema della salute e che questo potesse cambiare le cose. Abbiamo cominciato, per esempio, discutendo quando si poteva dimettere un paziente. La discussione non era più solo tra noi, i medici, ma con le persone del quartiere dove il malato sarebbe andato ad abitare. Così il cittadino del quartiere si rendeva conto che le necessità del paziente non erano diverse dalle sue. Quando c’era il problema di dimettere una persona povera, che non aveva denaro, né casa né famiglia, in molti percepivano che erano o che avrebbero potuto essere nelle stesse condizioni. Cominciava così l’identificazione tra il sano e il malato, e l’inizio dell’integrazione del malato. Allora, giorno dopo giorno, anno dopo anno, passo dopo passo, disperatamente, trovavamo la maniera di portare chi stava dentro fuori e chi stava fuori dentro. Così, a mano a mano che il numero degli internati diminuiva cominciavamo a creare in città i centri di salute mentale. Avevamo una struttura esterna molto agile, nella quale era affrontata la malattia fuori dal manicomio. Vedevamo che i problemi riferiti alla pericolosità del malato cominciavano a diminuire: cominciavamo ad avere di fronte a noi non più una “malattia” ma una “crisi”. Noi oggi mettiamo in evidenza che ogni situazione che ci viene portata è una “crisi vitale” e non una “schizofrenia”, ovvero una situazione istituzionalizzata, una diagnosi. Allora noi vedevamo che quella “schizofrenia” era espressione di una crisi, esistenziale, sociale, famigliare, non importa, era comunque una “crisi”. Una cosa è considerare il problema una crisi e una cosa è considerarlo una diagnosi, perché la diagnosi è un oggetto mentre la crisi è una soggettività, soggettività che pone in crisi il medico, creando quella tensione di cui abbiamo parlato prima. Ho parlato in modo molto generale del cammino che abbiamo dovuto fare per cercare di eliminare l’ospedale psichiatrico e creare una situazione tendenzialmente terapeutica. Non posso dire che tendenzialmente terapeutica, perché non può essere pienamente terapeutica: io tento di curare una persona, ma non sono certo se la curo o no. E’ la stessa cosa quando dico che amo una donna. E’ molto facile dire questo, persino falso… E’ falso perché l’uomo tende a un tipo di relazione e la donna a un altro. Quando si crea una relazione, questa non è più che una crisi, una crisi in cui c’è vita se non c’è dominio, dell’uomo sulla donna o della donna sull’uomo. Allora, in questa situazione che è tendenzialmente di amore, si può creare una relazione molto libera…”

 

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